...

venerdì 9 gennaio 2009

Vicino a Gaza Strip sotto i Qassam con Mad&Pago lunedì su Gente. Compratelo...

ISRAELE Cosa vuol dire vivere sotto tiro? Non lo sapevamo. Almeno fino al nostro viaggio in Israele. A poche centinaia di metri dalla Striscia di Gaza. Perchè sentir parlare di razzi Qassam non ha senso se non ne hai annusato l’odore di bruciato lasciato nei loro fori. Se non hai sentito l’allarme bombardamento risuonare decine di volte al giorno. Se non hai lasciato a metà il tuo panino per correre al rifugio più vicino. Per tre giorni abbiamo vissuto ad Ashqelon, Sderot, Netivot e Be’er Sheva. Con gli Israeliani e i Palestinesi. Perché la realtà è anche questa. Da Gaza sparano e sotto ci sono anche gli arabi. Preoccupati per i loro parenti rimasti nella Striscia. Certo la reazione dell’esercito con la Stella di David è decisamente sproporzionata. Crudele, forse oltre il limite dell’umano. Ma in quelle quattro cittadine e nei villaggi circostanti la vita non è vita. Proprio in questi giorni siamo arrivati alla fatidica cifra di diecimila razzi su Israele in sette anni. Una media di tre razzi al giorno sui confini riconosciuti dello stato ebraico. Il Negev, l’area attorno alla Striscia, è bombardato ogni giorno e un milione e novecentomila persone sono possibili obiettivi. Nel frattempo a Gaza si muore: di guerra, di assenza di soccorsi, medicine e vivere. Muoiono bambini, civile, militanti e terroristi. E il prezzo pagato da quella gente resterà sempre troppo alto. Questo abbiamo visto, sentito, respirato e annusato. Questo abbiamo cercato di raccontare in un reportage che uscirà lunedì sul settimanale “Gente”. Per tutti coloro che hanno apprezzato il nostro lavoro via blog comprare quel numero sarebbe il modo migliore di ringraziarci. Darebbe un significato concreto alla nostra esperienza. E dimostrerebbe che vale ancora la pena vedere con i propri occhi e raccontare. Dateci una mano. Lunedì comprate “Gente”!

Alessio e Alessandro

2 commenti:

Pagomad2 ha detto...

GRANDE RIFLESSIONE
Come ha scritto in un editoriale apparso anche sulla Stampa, Avraham B. Yehoshua - intellettuale a tutto campo: romanziere, saggista, autore di racconti e di opere teatrali, coscienza critica di Israele, attento osservatore della realtà e delle lacerazioni del suo Paese, e della storia recente – “per giudicare equamente le parti occorre avere una visione complessiva dello stato delle cose”. “Alcuni palestinesi di Gaza - ha spiegato - sono da condannare per il loro supporto delle azioni criminali di Hamas mentre i loro fratelli in Cisgiordania meritano compassione e simpatia per il comportamento aggressivo e iniquo che Israele mantiene ai check-point e nelle colonie. Agli israeliani che attaccano Gaza per distruggere le basi di lancio dei razzi sparati sui civili va piena comprensione ma in Cisgiordania, nel contesto dell’occupazione, quegli stessi israeliani continuano a commettere prepotenze e angherie. L’osservatore esterno dovrebbe dunque adottare un punto di vista meno semplicistico, un criterio di giudizio che, pur mantenendosi fermo ed equilibrato, non sia piatto e unidimensionale. Gli europei che osservano questa guerra, pur giustificando a volte la reazione di Israele al lancio dei razzi, si domandano se non sia troppo violenta, «sproporzionata». Israele è uno Stato forte e moderno che dispone di armi letali e sofisticate ma si trova di fronte una popolazione a livello di Terzo Mondo. Sì, i palestinesi di Gaza possiedono razzi, ma i danni che questi provocano sono relativamente limitati. E a riprova di questo è il fatto che le migliaia di razzi lanciati negli ultimi tre anni, dopo il ritiro dalla Striscia, hanno causato la morte di meno di 30 persone mentre l’esercito israeliano, in una sola settimana, ha ucciso centinaia di palestinesi. A questo punto occorre però chiarire una cosa fondamentale. È vero, la potenza di fuoco israeliana è decine di volte superiore a quella palestinese ma la capacità di sopportazione e di resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani. Se Israele avesse reagito in modo «proporzionato», rispondendo con un razzo per ogni missile caduto sul suo territorio, nessuno a Gaza ne sarebbe rimasto impressionato. I capi di Hamas avrebbero addirittura deriso una simile reazione e continuato a lanciare razzi a loro piacimento. Dopo un settimana di bombardamenti israeliani, che hanno causato enormi disagi alla popolazione e durante i quali sono morti centinaia di palestinesi (per lo più guerriglieri di Hamas ma anche parecchi civili) e sono stati distrutti numerosi edifici, non solo Hamas non mostra segni di resa ma non è nemmeno disposto a negoziare una tregua, a differenza di quanto fecero Egitto e Siria durante le passate guerre. Il governo di Hamas è indifferente alla sua popolazione. I capi e dirigenti si sono dati alla clandestinità o, più precisamente, si sono rintanati nei bunker sotterranei lasciando il popolo in preda alle sorti di un’irrealizzabile avventura fondamentalista”.

“Che fare allora? Cosa è possibile e giusto sperare? Cosa può fare Israele per uscire dal circolo vizioso della violenza che domina la sua esistenza fin dal primo giorno della sua fondazione? Israele può aiutare la gente di Gaza a cambiare opinione, a convincersi che occorre riconoscere la realtà dei fatti, abbandonare la via della violenza e concentrarsi sullo sviluppo e sul benessere. Non dimentichiamo che quella gente è nostra vicina, ha una patria in comune con noi che chiama Palestina e che noi chiamiamo terra di Israele e dovrà convivere con noi nel bene e nel male. Dobbiamo dunque fare il possibile per non inasprire e rendere ancora più sanguinoso il conflitto. Un simile peggioramento si imprimerebbe nella memoria collettiva rinfocolando sentimenti di amarezza e di vendetta. Anche i più estremisti tra i palestinesi non sono creature metafisiche, come non lo sono gli ebrei. Sono esseri umani soggetti a cambiamenti e persino un’organizzazione quale l’Olp, che in passato non era disposta a riconoscere in nessun modo la legittimità di Israele e aveva optato per la via del terrore, da anni mantiene un dialogo con lo Stato ebraico. Ma un auspicabile cambiamento a Gaza, dopo l’avvento di una tregua, non dipenderà solo da quest’ultima e dall’apertura dei valichi di frontiera ma soprattutto da ciò che Israele farà in Cisgiordania. È laggiù che la politica degli insediamenti, da sempre uno dei maggiori ostacoli alla pace, dovrà subire un radicale cambiamento. Ridurre il numero delle colonie e smantellare subito tutti gli avamposti illegali significherebbe eliminare barriere divisorie e posti di blocco e agevolare la vita dei cittadini. Ogni modifica della politica israeliana in Cisgiordania a favore di una più rapida creazione dello Stato palestinese darà agli abitanti di Gaza, stremati e in lutto dopo i recenti avvenimenti, la speranza e la determinazione di voltare le spalle alla politica di Hamas che li ha condotti nel baratro”.

Altra Tradate ha detto...

Ben tornati.
Abbiamo chiesto a quelli che ci seguono sul blog di comperare lunedì GENTE per leggere il vostro reportage.
Ancora complimenti e un affettuoso augurio!