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venerdì 2 maggio 2008

Viaggio nella cartiera dimenticata

CASTIGLIONE OLONA Ogni paese ha il suo gigante addormentato, ogni realtà il suo lato inesplorato. Tutti simili ma sempre diversi. Il nostro viaggio nelle aree dimesse della provincia di Varese questa settimana ci ha portati a visitare la ex cartiera Crespi di Castiglione Olona. Lasciata l’auto lungo la strada che costeggia la fabbrica, cerchiamo un varco ed entriamo attraverso una rete arancione, di quelle usate per delimitare le aree di cantiere. I rovi e le sterpaglie rendono il nostro ingresso difficile, lo rallentano ma non lo impediscono. E alla fine riusciamo ad arrivare all’edificio. Le porte che ci offrirebbero un accesso diretto alla fabbrica sono murate e per entrare dobbiamo lanciarci in una nuova avventura. Ci caliamo sull’argine limaccioso dell’Olona attraverso una breccia nel muro, da lì raggiungiamo il cuore della vecchia area produttiva. Camminare lungo il corso d’acqua non è un’esperienza piacevole, l’odore nauseabondo del letto del fiume violentato da anni di inquinamento incontrollato ci aggredisce le narici, le scarpe affondano nel terreno reso molliccio dall’acqua e, di tanto in tanto, dei grossi topi sgusciano da qualche anfratto. Fortunatamente in pochi minuti siamo all’asciutto. Una volta dentro iniziamo a vagare, ad esplorare gli ambienti di questa piccola cartiera. Al piano principale, quello della produzione, troviamo segni recenti del passaggio di qualche giovane writer che ha usato le pareti interne come palestra urbana, per testare la propria abilità nell’arte del graffito. Ci spostiamo ai piani superiori. Tra le stanze di quella che sembra essere stata un’abitazione. L’ambiente è spettrale, alle pareti vecchie tappezzerie fanno ancora bella mostra di se, attraverso le finestre senza vetri e le persiane rotte filtra una luce che rende tutto ancor più surreale. Tra questi locali troviamo i segni di un recente passaggio: un vecchio fornello da campeggio, un grosso mucchio di bottiglie di plastica vuote, dei fili serviti a stendere i panni, un giaciglio. Evidentemente, anche dopo la chiusura della fabbrica, qualcuno ha abitato questi ambienti logori e tristi, senza vetri, senza servizi igienici, senza acqua e corrente. Immigrati, tossici o senzatetto. Chiunque fosse ha lasciato dietro di se un alone di disperazione. In ogni caso ora le stanze sembrano essere state abbandonate anche da chi le ha usate come alloggio di fortuna. Continuiamo nel nostro percorso, percorriamo il dedalo di corridoi e scale soffermandoci ad osservare ogni dettaglio. Scendiamo negli androni della produzione. Svuotati con i macchinari estratti a forza dai muri. Sradicati insieme alla gloria di un tempo. La penombra, a tratti vero e proprio buio, rende ancor più spettrale la nostra visita. Solo le torce ci aiutano a trovare la strada. Una via utilizzata per la movimentazione del materiale dalla quale si dipanavano veri e propri passaggi a labirinto. Lunghi corridoi lontani dalla luce che a stento riesce a filtrare tra i vetri rotti dell’edificio. Tutto ha ormai un aspetto precario, come le scale di raccordo tra i vari livelli della cartiera. Scricchiolano pericolosamente ad ogni passaggio. E le cassette del pronto soccorso incollate ogni tanto alle pareti sembrano quasi un monito. Accanto al quale, in quel silenzio irreale, sembra di sentire il grido di pietà delle strutture. Un appello dal passato. Fermo e deciso. Riqualificazione.

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