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lunedì 5 gennaio 2009

Da Gerusalemme ai Territori occupati della West Bank. Tra chek point, soldati e manifestazioni

GERUSALEMME Tante facce, tante culture, una sola città. Come avviene da anni anche oggi su Gerusalemme incombe lo spettro di un conflitto irrisolto, che sta vivendo in questi giorni la sua ennesima fase acuta. Dopo una settimana di martellanti incursioni aeree sulla striscia di Gaza, l’esercito israeliano ha iniziato l’offensiva via terra. La parte più temuta e attesa dell’operazione “piombo fuso”. Nonostante la tensione mediatica, accesa ad arte da ogni attore in campo e che di ora in ora rilancia notizie e aggiornamenti, conteggi e proclami, per quanto sia difficile da credere, la gente da queste parti sembra proprio avere fatto il callo a questa situazione. Viverla normalmente però non vuol dire che questa capitale contesa non incarni ogni contraddizione del suo essere. Lo abbiamo toccato con mano e visto con gli occhi all’alba di una domenica mattina. Quando, dopo il riposo del sabato, centinaia di soldati ragazzi dell’esercito della Stella di Davide gremivano la stazione degli autobus, vera e propria trincea anti attentati con metal detector e scanner ad ogni accesso. Sotto questi varchi una sola corsia preferenziale. Quella per loro: baby militari poco più che maggiorenni. Ragazzi e fanciulle sorridenti con in mano, e in bella vista, fucili d’assalto che alle nostre latitudini si vedono esclusivamente nei film d’azione. Ma niente a Gerusalemme è un film. Così, portata agganciata alla tracolla a passo veloce tra la folla, ognuna di queste armi a penzoloni sulla schiena, aveva un dito potenzialmente sul grilletto. Per le vie come sui bus.
“Ognuno di noi – ci hanno spiegato senza troppa voglia di scendere nei dettagli – deve fare la sua parte. Può essere d’accordo o meno ma non può sottrarsi. Prima che un obbligo scritto quello di difendere Israele è un compito che sentiamo dentro di noi. Ma questo non cambierà le nostre abitudini”. E del resto nemmeno i turisti, seppur in calo, continuano a mostrarsi per le strade della città. Arrivano a ogni ora del giorno, tanto che non è impresa facile trovare una stanza libera, e da ogni parte del pianeta. Perché a Gerusalemme l’odore del piombo fuso si avverte solo in lontananza. Per respirarlo dall’altra parte, quella della Cisgiordania, invece, è necessario superare i vari check point disseminati a guardia delle colonie e della parte ovest della città sacra. Torrette con mitragliatori pesanti e urla infinite. Qui la calma è dimenticata. Passaporto alla mano ogni volta è un interrogatorio da superare prima di ricevere il via libera. Con il muro di protezione israeliano alle spalle, i blindati di sorveglianza, e i primi pastori palestinesi dall’altra a indicare che l’aria è cambiata. Da una parte del varco la fanteria corazzata chiamata a evitare incursioni con armi pesanti e lanciagranate, dall’altra i “poliziotti” palestinesi e i loro vecchi “kalasnikov” rappresentano l’altra faccia della medaglia. “E noi dovremmo essere un pericolo – ci accolgono sorridendo mentre indicano la colonia in rapida espansione di fronte a Beit Shaour - : non riusciamo nemmeno ad avvicinarci per un giro di controllo. Del resto anche visivamente si nota la differenza tra noi “poliziotti” e l’esercito”. Come si nota la differenza tra chi, malgrado tutto, continua dritto per la propria via e coloro che invece, sono costretti, anche solo per andare al lavoro (quando c’è), a ore e ore di tortuose strade secondarie e colonne infinite.
“A Gaza stanno risuonando le armi di Israele. Qui da noi nella West Bank, invece, parla la loro tattica di accerchiamento silenzioso”. A scandire queste parole, pesanti come pietre che frantumano ogni speranza di vedere concretizzarsi qualcosa di simile agli accordi di Oslo, sono Qumsiyeh Mazin, professore di genetica all’università di Betlemme e Ibrahim Nassar, direttore di Aic, l’Alternative information center, di Gerusalemme. Ieri hanno coordinato l’ennesima marcia di protesta contro “le violenze e la barbarie israeliane nella Striscia”. Niente di estremista. Con la banda della locale chiesa cattolica, perché questa realtà a pochi passi dalla grotta della Natività è la più cristiana della Palestina, a guidare il corteo con in seconda fila il patriarca ortodosso, quello cristiano e l’imam mussulmano, uniti nella contestazione. “La cosa veramente preoccupante – ha tuonato Nasser – non è tanto l’atteggiamento criminale di Israele che per rovesciare Hamas, forza contro la quale anche io mi sono sempre battuto, colpisce la popolazione ottenendo solo l’effetto di rafforzare queste realtà. Quello che davvero deve farci riflette è il silenzio dell’Europa di fronte a questa catastrofe umanitaria. Il voltare la faccia e piegarsi a logiche di espansione nemmeno troppo celate. Per il vostro continente questa è una sconfitta. E i vostri leader stanno ripetendo nei confronti del popolo palestinese l’errore compiuto quando si girarono dall’altra parte durante la persecuzione degli ebrei”.

(Testi e foto sono di proprietà di Alessandro Madron e Alessio Pagani. E' vietata ogni riproduzione anche parziale senza l'accordo degli autori)

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