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mercoledì 7 gennaio 2009

Sotto i razzi Qassam con il cuore a Gaza. Quattro chiacchiere con Dawud, arabo in Israele

NEAR GAZA Una colonna di fumo nero spacca il cielo in due. La televisione in lingua araba Al Jazera trasmette notizie a ciclo continuo dalla Striscia di Gaza. Le immagini che scorrono sono raccapriccianti e colpiscono dritto alla pancia, passando per il cuore. Molti i cadaveri di piccoli bambini mutilati dalla brutalità di una guerra che non hanno nemmeno avuto il tempo di comprendere. Immagini che non vedremo mai sui giornali o sulle tv di casa nostra. Troppo forti anche per un occhio allenato alla sofferenza.
Dawud è seduto di fianco a noi, nella sala di un caffè in Sderot Yerushalayim street. Gli occhi fissi sulla televisione e il pensiero che vola oltre il muro, a casa dei parenti, a pochi chilometri di distanza. “Mio cugino vive nella striscia di Gaza – ci confida -, non è in città, è appena fuori. Ci siamo sentiti, è molto preoccupato, ma lui e la sua famiglia per ora stanno bene. La situazione dentro è infernale”. Dawud è un arabo israeliano e per lui, più di ogni altro, è difficile comprendere e accettare questo conflitto. Con i Qassam che gli piovono sulla testa, le corse ai rifugi, la vita formato spezzatino. E l’operazione “piombo fuso” che mette a rischio la vita dei familiari.
“Onestamente penso che qualcosa il nostro esercito avrebbe dovuto fare. E forse anche già da tempo prima. Sono giorni di conflitto fuori da me e dentro di me. E poi le immagini, quei volti. Sono giorni che non riesco a dormire. Allora mi incollo al televisore ed è ancora peggio”. Così, ieri, a tenerlo sveglio sono state le grida e il sangue dell'istituto Al-Fakhura, nel campo profughi di Jabaliya (nel nord della Striscia), dove almeno 42 palestinesi sono morti quando due proiettili hanno raggiunto l’area dell’ingresso dell’edifico gestito dalle Nazioni Unite. Dolore che si accavalla al dolore dei suoi per i suoi concittadini. Tanti quelli feriti, choccati e cambiati per sempre da otto mesi di razzi e sirene d’allarme ad ogni ora. “Così per me – ammette – ogni giorno che passa è sempre più difficile accettare tutto questo. Invidio mio fratello che studia farmacia in Italia, a Firenze. Spero che rimanga a vivere da voi. Lontano da questi massacri. Da questa terra e dalle sue maledizioni”. Poi il suono della sirena interrompe la conversazione. E tutto, anche i blocchi di cemento armato piazzati alle fermate degli autobus, diventano qualcosa a cui aggrapparsi con forza. Fino al cessato allarme. Che segna il ritorno davanti alla televisione. Nel giorno dell’Epifania, che celebra l’omaggio dei Magi al Signore, a Sderot e persino a Gerusalemme tutto questo passa in secondo piano. Troppa la tensione dove quasi ognuno ha familiari e conoscenti al fronte, da una parte o dall’altra. Dove anche le certezze più solide sembrano crollare di fronte alla crudezza di un conflitto nato per liberare Israele dall’incubo dei razzi di Hamas. Missione che probabilmente sarà raggiunta. “Ma la questione – conclude Dawud salutandoci – è soltanto il prezzo che tutti noi dovremo pagare”.

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