BETLEMME “Cinque dita, una sola mano”. Questa la frase tracciata in inglese sul muro di protezione israeliano che accoglie le persone che affrontano il lungo percorso forzato per superare il check point di Betlemme. Una metafora per dire che tutte le grandi religioni hanno uguale dignità e sono figlie dello stesso Dio. Ma alla prova dei fatti, in quelle gabbie di metallo che ti incanalano dritto verso gli scanner, i rilevatori di esplosivi, e i database delle impronte digitali, anche le divinità sembrano inchinarsi alle regole di ingaggio. Operazioni di sicurezza necessarie per evitare l’azione devastante dei terroristi se viste dal versante israeliano, lungaggini insopportabili che sfociano nell’umiliazione e nella privazione del dritto a muoversi sulla loro terra per i Palestinesi. Perquisizioni, automatizzata delle impronte e code insopportabili che si accaniscono specialmente su chi nella Cisgiordania deve spostarsi per lavoro. Già, perché, i posti di controllo non sono solo una delle difese a cavallo tra Israele e territori palestinesi. Sono ovunque e disseminati soprattutto tra città e città, tra paesi e paesi, sotto controllo anche militare dell’autorità palestinese. A sancirlo è anche un recente rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite in Cisgiordania. Analisi che ha denunciato “la limitazione di movimento della popolazione palestinese causata proprio dai check point e dal Muro di Annessione, e ha sminuito gli "effetti positivi", molto pubblicizzati ma molto limitati, prodotti dalla eliminazione di qualche posto di blocco militare”. Durante l'indagine effettuata nel mese in corso su Cisgiordania e Gerusalemme Est, l'Ufficio dell’Onu per il Coordinamento degli Affari umanitari ha contato qualcosa come 630 posti di controllo che ostacolano il movimento della popolazione residente. Si tratta di 93 postazioni di blocco militari e ben 573 barriere formate da cumuli di terra, cemento e muri. Senza contare l’altro nemico giurato degli spostamenti palestinesi: le by-pass road, ovvero strade di collegamento gli insediamenti tra di loro le colonie israeliane nella West Bank. “Il problema di queste infrastrutture – ci spiegano però i tassisti palestinesi che ci accompagnano nel nostro viaggio – è che possono transitare solo cittadini israeliani e, pur attraversando il nostro territorio, nessun palestinese può usarla o anche solo avvicinarla entro una fascia di 500 metri. In pratica siamo prigionieri di una ragnatela infinita che ci costringe deviazioni chilometriche anche per piccolissimi spostamenti”. Emblematico il caso di Hebron, città palestinese a 30 chilometri a sud di Gerusalemme, famosa per le sue uve, le fabbriche di ceramiche e vetri. Con i residenti che ci spiegano di essere “ostaggio della colonia nel cuore dell’abitato”. 400 israeliani difesi giorno e notte da 1500 soldati. Tre ogni colono. “E direttrici che ora – lamentano gli automobilisti nel traffico – sono solo a loro uso e consumo”. E tutto questo senza dimenticare il muro. Cemento armato e torrette che corrono lungo il confine tra la Cisgiordania e Gerusalemme. “Qualcosa – ci saluta Nabil lasciandoci taxi con il sual check point di Beit Shaur che passiamo a piedi – che ci rende prigionieri in casa nostra”.
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1 commento:
molto toccante.
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