
Come ha fatto a diventare il consulente della difesa per il caso Unabomber, una delle vicende giudiziarie più interessanti e più seguite degli ultimi anni?
È stata una cosa quasi casuale – ha spiegato Paolo Battaini – non ho ancora avuto tempo per parlare con Zornitta di questa cosa. In questo periodo abbiamo avuto talmente tante cose a cui pensare. In ogni caso credo che mi abbia trovato tramite internet. Il mio laboratorio ha infatti un sito. Penso che mi abbia scelto tra un ventaglio di altri possibili miei concorrenti. So che ha cercato anche dei tecnici negli Stati Uniti, ma poi ha preferito rivolgersi ad un professionista italiano, credo anche per una questione economica. Tra i tanti validi professionisti del settore alla fine ha scelto me.
Di cosa si occupa abitualmente nel suo laboratorio, quando non fa perizie in ambito giudiziario?
Esemir è un laboratorio dotato di microscopio elettronico a scansione, ed è specializzato in failure analysis con tecniche di indagine diverse. In sostanza mi occupo di analizzare le problematiche che interessano i materiali durante il loro impiego. Il mio scopo è quello di diagnosticare il problema che riguarda un prodotto e proporre le migliori soluzioni per evitare il ripetersi delle cause di rottura e delle difettosità. I miei clienti sono, ad esempio, le tante aziende dell’indotto aeronautico, che hanno bisogno di una certa affidabilità dei materiali, ma anche altre piccole industrie che non possono permettersi un laboratorio interno e che vogliono scoprire quali sono le fragilità dei loro prodotti per poi poterli migliorare.
È stata la sua prima esperienza di questo tipo?
No, mi è capitato altre volte. Sono iscritto all’albo dei tecnici del giudice. Sono già stato chiamato ad esprimere il mio parere in altri casi giudiziari, ma mai di questo livello. Ovviamente non si tratta della mia attività principale, tutt’altro.
Quali sono stati gli aspetti più interessanti del periodo che ha vissuto da super-perito?
Sicuramente venire a contatto con tanti professionisti e tecnici del settore delle indagini criminalistiche è un fatto stimolante, che porta ad un grande arricchimento professionale. La possibilità di verde all’opera tante persone, scambiare opinioni e giudizi è senza ombra di dubbio il valore aggiunto di una esperienza di questo tipo. Mi riferisco ad esempio ai tecnici del Ris o della stessa Polizia Scientifica.
Quale è stato il metodo di lavoro che la ha portata al risultato che tutti conosciamo, quale è stata la molla che ha fatto scattare il meccanismo?
Non ho fatto altro che applicare il metodo di indagine e di lavoro che seguo abitualmente. Quando mi trovo di fronte ad un oggetto, poco importa che si tratti di un lamierino, di una forbice o di una vite, la prima domanda che mi faccio è sempre la stessa: “conosco la storia di questo campione?” e da lì parte tutto il lavoro. È chiaro che un oggetto è il prodotto di una storia, di una evoluzione che cambia a seconda di diversi fattori. Occorre considerarli tutti: dal luogo in cui è stato conservato, ai fattori ambientali, a quelli antropici, non si può trascurare nulla. Dunque il primo lavoro che faccio sempre è quello di acquisire il maggior numero possibile di informazioni.
Dunque, nel caso specifico, come ha fatto a stabilire l’inattendibilità della tesi dell’accusa?
Mi sono basato, insieme all’altro perito (l’ingegner Alberto Riccadonna di Mantova ndr), sui reperti fotografici. Abbiamo cercato di ricostruire l’evoluzione del lamierino attraverso le foto. Siamo partiti da una immagine scattata dal Ris di Parma nel momento del ritrovamento della trappola esplosiva, scoperta integra il 2 aprile 2004 sotto un inginocchiatoio nella chiesa di Sant'Agnese di Portogruaro. Abbiamo confrontato quell’immagine con delle foto scattate successivamente, quando il lamierino era già stato sottoposto ad altri esami. Da lì abbiamo cercato di dimostrare che l’oggetto aveva subito delle modifiche e le foto hanno dato ragione ai nostri sospetti di manomissione.
E dopo i rilievi sulle fotografie come avete continuato a lavorare?
Poi è stato tutto un lavoro di laboratorio. Ho preso una serie di campioni di forbici, andando anche direttamente nella ditta che ha prodotto “le forbici” di questo caso. Con queste forbici ho iniziato a fare dei test su diversi campioni di lamierino. Mi sono messo proprio fisicamente a tagliare, per poi analizzare al microscopio elettronico la morfologia della superficie del taglio. Ho realizzato centinaia di fotografie al microscopio, si tratta di foto che mi permettono di vedere il dettaglio di pochi micron, frazioni di millimetro. A quei livelli di ingrandimento è possibile stabilire come si comporta la lama di una forbice. Ed è quello che ho fatto: ho lavorato alla teoria del comportamento delle forbici, apparentemente una cosa banale, ma che non esisteva in letteratura. Dopo aver elaborato la teoria abbiamo potuto applicarla al caso specifico, traendo le conclusioni che ormai sono note a tutti.
Il fatto che avete rilevato non è certo cosa da poco, quale è la tensione che si avverte di fronte ad una scoperta come la vostra?
Chiaramente abbiamo valutato ogni possibile alternativa. Abbiamo cercato, come era nostro dovere fare, di escludere ogni possibilità che le cose non fossero andate esattamente come ci eravamo immaginati. Non abbiamo trovato altre strade percorribili. Dunque, dopo un serio confronto, abbiamo steso la nostra relazione, consapevoli di aver compiuto un passo fondamentale, con tutte le tensioni che questo comporta.
Quale è la pressione che si vive occupandosi di un caso come quello di Unabomber?
La pressione è soprattutto mediatica. Ci si sente costantemente valutati dal mondo esterno su basi che non sono propriamente corrette e fondate su una logica di realtà e questo per dei tecnici che fanno dell’osservazione della realtà il proprio lavoro non è sempre facile da accettare.
Ilvo Zornitta era stato ormai “condannato” da gran parte dell’opinione pubblica. Erano in molti infatti quelli che avevano bisogno di un colpevole, che si aspettavano di poter dare un volto e un nome ad Unabomber, il folle che ha terrorizzato per anni il Nordest con i suoi ordigni esplosivi. Nel formulare la sua relazione non ha sentito la responsabilità di aver nuovamente allontanato la soluzione di questo caso? Di aver in qualche modo tradito le aspettative della gente?
Io la vedo in un modo diverso. Sono stato chiamato a redigere una perizia per l’incidente probatorio. Io non ho stabilito se Zornitta è o non è Unabomber, non era quello il mio compito. Mi sono limitato a dare un parere tecnico, dal quale si doveva evincere se le forbici rinvenute nel capanno di Zornitta avessero o meno tagliato il lamierino contenuto nell’ordigno. Tutto qui. Ho svolto il mio lavoro. Poi nel mio caso fino ad ora è andato tutto bene, Alberto Riccadonna, l’altro perito con cui ho lavorato a questo caso, è stato tacciato pubblicamente di essere il salvatore del delinquente e non credo che sia una bella posizione.
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